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Devolution – riforma costituzionale

15 Novembre 2005

XIV Legislatura

Seduta n. 898 mercoledì Seguito della discussione del disegno di legge costituzionale: (2544-D)
Modifiche alla Parte II della Costituzione (Approvato in prima deliberazione dal Senato; modificato in prima deliberazione dalla Camera dei deputati; nuovamente approvato, in prima deliberazione, dal Senato e approvato, in seconda deliberazione, dalla Camera dei deputati)

Discussione generale DONATI (Verdi-Un). Signor Presidente, colleghe e colleghi, rappresentante del Governo, sotto il ricatto elettorale della Lega, la devolution, giustamente ribattezzata “dissolution”, è arrivata all’ultimo passaggio parlamentare che, come è noto, ha un carattere esclusivamente formale. Fra oggi e domani, quindi, Governo e maggioranza si apprestano, in virtù della forza dei numeri di cui godono, ad approvare la loro riforma della Costituzione italiana, frutto della maldestra riscrittura privatistica della Parte II della Costituzione che si è – voglio ricordarvi da dove siamo partiti – consumata nella baita di Lorenzago, grazie all’operosità estiva dei celebri quattro saggi. Si tratta della scrittura di una Costituzione radicalmente nuova, modificata in 49 articoli, e che altera, in maniera sostanziale, di fatto, la stessa Parte I. E’ questa di per sé una violazione dello stesso articolo 138 della Costituzione, concepito proprio, invece, per modifiche puntuali e parziali. Un testo che propone un ibrido che scardina i principi e le regole dello Stato di diritto democratico ed espone il nostro Paese al rischio concreto di una dittatura della maggioranza, o ancor più, come si potrebbe dire, di una dittatura del Premier.

Un disegno di legge che getta al vento il lavoro dei nostri Padri costituenti e dissolve l’intero sistema di equilibri e rapporti fra gli organi costituzionali. Solo per citarne alcuni, riduce sensibilmente i poteri di garanzia del Presidente della Repubblica, trasformato in semplice notaio e smembra l’assetto indipendente della Corte costituzionale. Entrambi, lo ricordo, diventano espressione della maggioranza. Le Camere sono ridotte ad ostaggio di un Presidente del Consiglio plenipotenziario e le leggi saranno approvate con una sorta di fiducia permanente, entro 30 giorni dalla decisione del Premier di ritenerle fondamentali per il suo programma (non della coalizione, di un Governo e dei suoi Ministri, ma esclusivamente del Premier).

La totale prevalenza del potere del “Capo del Governo” non si spiega neppure con la sostanziale elezione diretta da parte del corpo elettorale: il Primo ministro gode di una serie di poteri assolutamente spropositati rispetto alle tradizioni di qualunque Governo, sia parlamentare che presidenziale e che non ha quindi equivalenti in nessuna forma di Governo, neanche in quella semipresidenziale della quinta Repubblica francese; stiamo parlando ovviamente di sistemi democratici. La quintessenza della situazione di pericolo in cui siamo piombati è costituita dalla norma sulla questione di fiducia: si esplicita la possibilità di porre, da parte del Premier, la questione di fiducia, da votarsi con priorità su ogni altra proposta, con il solo limite che essa non possa essere posta sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Già nel corso della precedente lettura, qui al Senato, in primavera, è arrivato un testo blindato, non discutibile, da approvare inesorabilmente prima dell’imminente tornata elettorale amministrativa: nessun margine di confronto con l’opposizione è stato possibile e si è tenuta una discussione parlamentare a cronometro, sotto la minaccia delle paventate dimissioni da parte del ministro leghista Calderoli. Il ricatto ha effettivamente funzionato ed il Senato della Repubblica ha approvato il Senato federale, riducendo se stesso ad una sorta di Camera morta. Un ramo del Parlamento con una inconsueta nuova veste, che non sarà in grado di rappresentare le istanze delle Regioni e non sarà più neppure organo di garanzia ed un utile contrappeso nel procedimento di formazione delle leggi.

Il Senato, infatti, così come concepito da questa riforma, non è rappresentativo nemmeno delle Regioni, essendo inidoneo a garantirne il pieno coinvolgimento nelle grandi scelte del Paese e rappresenta la parte più debole di tutto il progetto, ma anche quella che scardina tutto il meccanismo ed espone a pericoli gravissimi il funzionamento di uno Stato democratico. Si tratta di un Senato, dunque, che ha perso ogni barlume di ruolo di garanzia e di contropotere rispetto all’Esecutivo. Il problema è, come ha giustamente sostenuto l’ex presidente della Corte costituzionale Casavola, che non si conosce la Costituzione e se la si conosce la si vuole demolire e si danno ad essa colpe che sono invece della classe politica che “non ha voluto organizzare tempestivamente lo Stato delle autonomie”, nel timore di veder differenziarsi sul piano politico le diverse Regioni (tra bianche , rosse o nere) ed ora ha “deciso di cambiare addirittura la forma dello Stato” perché “alcuni astuti politici hanno messo sul piatto della bilancia la minaccia della secessione” ed altri, purtroppo, hanno scambiato spinte populistiche per intenti progressivi ed innovativi. Nei rapporti fra organi costituzionali che il testo prefigura, infatti, c’è qualcosa di più profondo e radicale di un cambiamento della forma di Governo.
Nel disegno complessivo il mutamento di quei rapporti è così deciso da determinare un’alterazione degli equilibri di tale portata da incidere sulla stessa forma di Stato. L’esito finale della riforma sembra essere proprio “l’uscita dallo Stato di diritto democratico. Non è solo la democrazia, infatti, a risultare annichilita: di essa resta una parvenza (…) in qualche modo rimane; del costituzionalismo, viceversa, non rimane assolutamente nulla, “dal momento che l’obiettivo della riforma è esattamente quello, come è stato detto, e cito testualmente, di “liberare il potere da limiti e controlli”.

Non si è neppure evitato il rischio del comparatismo; al contrario ci si è caduti in pieno, prendendo “pezzi” diversi da alcune forme di Governo, tutte di per sé compatibili con lo Stato di diritto democratico e purtroppo costruendo nel complesso un ibrido che conduce fuori da ogni forma contemporanea di Stato. Nella passata legislatura, quando fu redatto il testo di riforma costituzionale limitata al solo Titolo V (largamente contestata e non votata, ma fino all’ultimo ampiamente condivisa sul piano politico), non fu inserito l’aggettivo «esclusivo», proprio per evidenziare che la competenza legislativa regionale era certamente esclusiva, ma nei limiti stabiliti dai princìpi fondamentali delle leggi dello Stato e che comunque tale potestà regionale non poteva intendersi nel medesimo significato con il quale si intende quella esclusiva statale.

La nozione “esclusiva” riferita alla potestà legislativa regionale, inserita nel testo, al di là delle dichiarazioni politiche rassicuranti da parte della maggioranza, deve invece intendersi purtroppo come potestà non limitata dai princìpi fondamentali delle leggi dello Stato. Un tale aggettivo, inserito nella Costituzione, darà luogo sicuramente a conflitti interpretativi e al moltiplicarsi dei conflitti di attribuzione che anche adesso, pur con un testo decisamente più chiaro, non mancano. In estrema sintesi, dunque, il riparto delle competenze, se da un lato fa tesoro della recente giurisprudenza della Corte costituzionale, che intende rendere effettivi i princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione fra gli enti della Repubblica, dall’altro viene contraddetto dall’introduzione della esclusività della competenza legislativa regionale, che implica che il potere centrale viene completamente escluso ed è dunque un formidabile ostacolo alla crescita della sussidiarietà. Ciò desta, tra noi Verdi, preoccupazioni ai più vari livelli in merito ai pericoli per l’unità economica e sociale del nostro Paese derivanti dal trasferimento alle Regioni della competenza legislativa esclusiva.

Un federalismo, che di federale ha solo il nome, insaporito da un autoritarismo mascherato da “Premierato forte”, non può che complicare la vita a tutti i livelli istituzionali, inclusi gli stessi cittadini che molto direttamente ne sopportano l’onere economico. Non a caso si sono levate molte voci dissenzienti contro questa parte della riforma, come quelle del Presidente della Confindustria e del Ragioniere generale dello Stato, per non parlare dei rappresentanti sindacali: tutti pongono l’accento sugli effetti destabilizzanti per la società italiana e per la finanza pubblica della paventata riforma. Un falso federalismo in materia di polizia amministrativa regionale, organizzazione scolastica e sanità aumenterà gli squilibri e le diverse offerte di servizi ai cittadini in un Paese, come l’Italia, che è composito e già oggi presenta situazioni differenziate; in tal modo alimenterà disuguaglianze inaccettabili e creerà i presupposti per la rottura di quel patto di solidarietà a cui tutta la nostra normativa fino ad oggi si è ispirata. Ricordo che in questo progetto di riforma costituzionale si parla di federalismo, mentre – per paradosso – in realtà norme rilevantissime del Governo Berlusconi sono andate esattamente nella direzione opposta. Ne cito una per tutte: nella cosiddetta legge obiettivo è stato deciso che non cinque grandi opere, ma 250 interventi nel nostro Paese vengano decisi al CIPE con il voto di nove Ministri, senza che sia possibile ascoltare le istanze dei Comuni e delle Province; inoltre, gli unici soggetti titolati ad esprimere un parere sono le Regioni che lo hanno ottenuto, dopo un ricorso avanzato dinanzi alla Corte costituzionale.

Come si può notare in questi giorni con la vicenda dell’Alta velocità in Val di Susa, tale procedura evidentemente non funziona; infatti, tagliare completamente fuori le istituzioni locali dai processi decisionali porta alla fine a questi miseri risultati. In un contesto così complesso e confuso, che ha condotto al fortissimo aumento del contenzioso Stato-Regioni, la Corte costituzionale ha assunto il ruolo, tanto delicato quanto ingrato di arbitro unico di tutti i conflitti di competenza legislativa ed amministrativa insorgenti tra Stato e Regioni. La pronuncia n. 196 del giugno 2004 sul condono edilizio (tema assai caro ai Verdi) è il più eclatante dei tanti esempi che si possono fare e che hanno portato ad una sovraesposizione della Consulta, configurando una sorta di federalismo o regionalismo di carattere giurisdizionale.

Il vostro progetto, accanto ad una contrazione delle responsabilità e del ruolo delle Assemblee parlamentari, porta ad un ancora maggiore sovraesposizione politica di un organo qual è la Corte costituzionale, cosa non richiesta, né gradita, come affermato dallo stesso presidente emerito della Corte Zagrebelsky. Il testo oggi al nostro esame non ha, infatti, purtroppo mutato la preponderante anima politica della Corte, prevedendo ben sette giudici di nomina politica su 15. I rischi di una colonizzazione politico-partitica, che si sperava fossero superati, sono, dunque, riproposti con tutta evidenza. Con questa controriforma si porta dunque a compimento un progetto che vede la convergenza di due assolutismi: l’assolutismo della politica e l’assolutismo del mercato; l’onnipotenza della maggioranza e l’assenza di limiti alla libertà d’impresa; l’insofferenza per le regole e per i controlli, così nella sfera pubblica come nella sfera economica.

È il rifiuto stesso del concetto di democrazia, della sostanza della democrazia, che implica un patto di convivenza basato sull’uguaglianza dei diritti civili e sociali, i cui i corollari necessari sono il principio di legalità e la separazione dei poteri: su questo patto, di cui una Costituzione dovrebbe essere garante, si fonda la concezione dello Stato sociale, oltre che liberale, di diritto, propria della tradizione europea dalla Rivoluzione francese in poi. È chiaro però che domani questa maggioranza, anche al Senato, voterà questo testo che dissolve una buona parte della nostra Costituzione. Ma noi sappiamo (e i Padri costituenti l’avevano previsto fin dal principio del nostro Stato di diritto) che abbiamo uno strumento straordinario: impegnare fuori dal Parlamento direttamente i cittadini in un referendum confermativo, contro una riforma sbagliata e pericolosa. Una nuova Carta costituzionale che scardina princìpi e regole dello Stato di diritto democratico ed espone il nostro Paese – come ha giustamente sottolineato Romano Prodi – al rischio concreto di una dittatura della maggioranza, ma, ancor più e ancor peggio, di una dittatura solo del Premier. (Applausi dei senatori Zancan e Gaglione).

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