Intervento Anna Donati per TCI
Sono nata a Faenza e la mia famiglia vive a Castel Bolognese, in provincia di Ravenna. Come tanti paesi della Romagna, a metà maggio ha vissuto in prima persona il dramma dell’alluvione, con il suo carico di morti, distruzione, perdita di cose famigliari e tanta ansia e paura. La catastrofe ambientale ha costretto l’intera comunità a fare i conti con qualcosa che non era mai accaduto in questa forma e intensità.
Sindaci, Protezione Civile, aziende pubbliche, sono state al fianco della popolazione così come tanti ragazzi, ragazze e reti solidali, che hanno dato una grande mano per spalare fango e svuotare case alluvionate. Questa è stata la parte positiva della tremenda esperienza, così come l’abituale indole della popolazione di mettersi al lavoro per ripartire. In attesa dei ristori che si spera arriveranno in fretta alle famiglie, alle imprese, ai comuni, per riparare i danni.
Ma c’è una parte negativa che non si può cancellare e che ho chiaramente percepito nelle persone: la paura che frane e alluvioni tornino sempre più frequentemente. A cui aggiungo l’amarezza personale di vedere in televisione e sui media dibattiti e interviste, che invece di andare alle cause profonde di questa crisi, mostravano semplificazioni pericolose. Sindaci che davano la colpa di tutto alle nutrie che scavano gli argini, esperti che negavano la crisi climatica, agricoltori che incolpavano i naturalisti perché vogliono i parchi fluviali, ministri che additavano negli ambientalisti la causa di tutto, perché avrebbero impedito di irregimentare i fiumi e creare muri di contenimento delle piene.
Un ribaltamento totale della narrazione, come se la soluzione sia aggiungere cemento a cemento di fronte al dissesto idrogeologico delle colline poco o mai curato, alla crisi climatica che alimenta i fenomeni estremi siccità/pioggia, alle nuove costruzioni che hanno alimentato l’impermeabilizzazione dei suoli a volte costruiti in luoghi sbagliati, agli spazi di esondazione dei fiumi sottratti alla loro funzione.
Da centinaia di anni in Romagna il lavoro dell’uomo ha conquistato terreno, bonificato le paludi, creato canali e chiuse per regolare le acque, realizzato fiumi pensili, tagliate e sbocchi a mare dei corsi d’acqua. Un modello che ora mostra tutto il suo carattere artificiale e fragile di fronte ai fenomeni estremi: serve un piano di adattamento mirato per la Romagna, per mettere in sicurezza il territorio.
Da questa storia dobbiamo ripartire ed imparare la lezione, sperando che la politica e le istituzioni, con l’ausilio di esperti e tecnici, prendano subito decisioni serie e di lungo periodo.