L’Espresso
Così il progetto di collegamenti super rapidi è diventato una voragine per le casse dello Stato.
La cerimonia porta la data del 19 dicembre 2005. In piena era berlusconiana, l’Italia festeggia l’avvento sui binari della cosiddetta Alta velocità. Treni che sfrecciano a 300 all’ora, collegamenti efficienti, densità di traffico moltiplicata rispetto alle normali linee. Un brivido futurista che parte con la tratta Roma-Napoli: 204,6 chilometri attraverso 61 comuni. O meglio 186 chilometri, perché quelli da Afragola a Napoli sono ancora in costruzione. In quei giorni si parla di evoluzione tecnologica, del primo passo verso l’Europa. Poi è arrivato il conto. Se nel ‘91 la tratta Roma-Napoli prevedeva una spesa di 1.994 milioni di euro, con un costo al chilometro di 9,77, oggi siamo a 6 mila 235 milioni, ovvero 30,56 al chilometro. “Il tutto”, dice il segretario della Fit-Cisl lombarda Dario Balotta, “per impiegare 75 minuti invece di 105″. Un risparmio che non entusiasma i viaggiatori: “Stando alle nostre stime”, spiega Balotta, “il coefficiente medio di riempimento dei treni è attorno al 25 per cento”. “Come se non bastasse”, aggiunge Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, “la capacità della linea è sfruttata al minimo. Potrebbero viaggiarci circa 330 treni, e invece ce ne sono 14″.
Incredibile? Imbarazzante? Scandaloso? Gli addetti ai lavori non si stupiscono. Per loro il sogno dell’Alta velocità si è trasformato presto in un incubo. Sia sul fronte economico che su quello progettuale. Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Corte di cassazione, non ha problemi a dire che “l’Alta velocità è la pastoia della politica italiana, una fonte di finanziamento illecito dei partiti e della criminalità organizzata”. Gli ambientalisti la definiscono “inutile, dannosa, e frutto di valutazioni errate”. Mentre il carico finale lo ha messo il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco con l’ultima Finanziaria, quantificando in 13 miliardi il debito nascosto da sanare per l’Alta velocità dal 2002 al 2005. Peggio, insomma, non potrebbe andare. Eppure le intenzioni, all’inizio di questa storia, erano nobili. Si volevano creare due assi, uno dorsale Torino-Milano-Roma-Napoli, e un altro trasversale da Torino a Venezia, con ulteriore collegamento tra Milano e Genova. Un piano per contrastare il male cronico italiano: troppo traffico su gomma, troppo poco su rotaia. “Peccato”, commenta il responsabile dell’ufficio legislativo del WWF Stefano Lenzi, “che il progetto riguardi 1.600 chilometri su un totale di 15 mila 923, dei quali solo 5 mila 603 elettrificati e a doppio binario. Come avere tutte piste da go-kart e due circuiti di Formula uno”.
“La giustificazione”, dice il professor Ponti, “è che con l’Alta velocità si sarebbero liberati posti sulle linee tradizionali. Ma anche qui c’è da ridire: pochissime sono le linee sature, e per queste sarebbe bastato aumentare frequenza e capacità, magari quadruplicando qualche tratta. Un intervento possibile in tempi rapidi e con circa un decimo della spesa”.
Appunto. Il vero tormento, nell’avventura dell’Alta velocità, sono i numeri. E non soltanto quelli della Roma-Napoli. Per meritarsi il nomignolo di Alta Voracità, si è andati oltre, battendo ogni precedente su scala internazionale. Un esempio: nel 1991, quando vengono presentati i progetti delle principali tratte, si indica per i 124 chilometri della Milano-Torino una spesa di 1.074 milioni di euro. Oggi siamo a 7 mila 778.
Altro esempio: i 182 chilometri della Bologna-Milano nel ‘91 dovevano costare 1.482 milioni, invece si è arrivati a 7 mila 150. Quanto ai 112 chilometri della Milano-Verona, i 1.125 milioni iniziali sono diventati 5 mila 735. Assaggi della spesa complessiva, che nel ‘91 era indicata in 14 mila 156 milioni di euro (compresi materiale rotabile, infrastrutture aeree e interessi intercalari), e che secondo le ultime stime, fornite in esclusiva a ‘L’espresso’ dall’istituto di ricerca Nuova Quasco, nel 2006 è passata a 66 mila 617 milioni. Senza contare le nuove tratte concordate con l’Europa che collegherebbero Milano al Brennero, Battipaglia a Palermo, e Novi Ligure al Sempione. “La riprova”, sostiene il direttore generale di Nuova Quasco Ivan Cicconi, “della follia in atto. Ma anche della leggerezza con cui lo Stato sperpera i propri denari”.
Il guaio, infatti, è che a finanziare l’Alta velocità è solo la cosa pubblica, cioè noi. Un dato oggi assodato, ma che non lo era affatto nel ‘91. Quel 7 agosto, le Ferrovie affidano la progettazione e la costruzione delle infrastrutture alla neonata Tav (Treni ad alta velocità) Spa, e la presentano come partecipata al 40 per cento da soci pubblici e al 60 da soci privati. Una bugia spaziale. A smascherarla, sette anni dopo, è il ministro dei Trasporti Claudio Burlando, il quale a un convegno ammette: “Si è detto che c’erano privati disponibili a fare investimenti, ma quando siamo andati a vedere abbiamo constatato che era una cosa falsa… Abbiamo i soldi ancora per dieci giorni… È bene che si sappia che è finita la quota pubblica del 40 per cento, mentre il 60 dei privati non si è mai visto”. Passano tre anni, e il nuovo ministro Pier Luigi Bersani fa l’unico atto concreto per rimediare al danno. Fino ad allora, infatti, non c’è stata ombra di gara pubblica. Tutti i miliardi di vecchie lire sono stati assegnati con trattativa privata a consorzi di imprese controllati da Fiat, Iri, Eni e Montedison. Dunque Bersani cancella, con la Finanziaria 2001, le concessioni per le tratte in fase iniziale, scegliendo procedure pubbliche di gara. Dopodiché arriva il governo Berlusconi, Pietro Lunardi diventa ministro delle Infrastrutture e Trasporti, e il provvedimento viene revocato. Non solo: l’Alta velocità entra nelle Grandi opere della legge Obiettivo, e i costi s’impennano fino al 500 per cento.
“Un tale incremento”, dice Anna Donati, presidente della commissione Lavori pubblici del Senato, “è dovuto al fatto che Lorenzo Necci, nel ‘91 al vertice di Tav, voleva dimostrare che l’Alta velocità costava poco, rendeva tanto e la pagavano i privati. Un postulato fasullo. Gli investimenti costano cifre esorbitanti, hanno ritorni modestissimi, e infatti i privati non hanno partecipato”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: tempi di realizzazione sballati, denari in libera uscita, proteste furiose della popolazione, dalla Val di Susa in giù. Caso esemplare, quello della tratta Bologna-Firenze.
“Le faccio un esempio”, dice Girolamo Dell’Olio, presidente dell’associazione ecologista Idra. “All’apertura dei cantieri, nel 1996, dicevano che la tratta sarebbe stata inaugurata nel 2003, mentre adesso si parla del 2009″. Nel frattempo, poco è andato come avrebbe dovuto. “Un servizio televisivo delle Iene ha denunciato lo sperpero della galleria Firenzuola, dove un prevedibile cedimento del terreno ha costretto a rifare la copertura in cemento armato. Ma c’è dell’altro”, dice Dell’Olio. “Le gallerie di Borgo Rinzelli e Morticine, ad esempio, battono su un substrato argilloso che l’Istituto per la difesa del suolo del ministero dell’Agricoltura indica da sempre come problematico. Eppure il consorzio Cavet, capitanato da Impregilo e partecipato da cooperative rosse, ha scelto proprio quell’area critica”.
Ancora più allarmante, in questo senso, è che i 60 chilometri di tunnel tra Bologna e Vaglia siano privi di una galleria di soccorso. Il comando dei Vigili del Fuoco di Firenze, già nel 1998, ha scritto in un documento ufficiale che “si nutrono seri dubbi sulla rapidità ed efficacia dei mezzi di soccorso”, vista la presenza di finestre di sicurezza soltanto ogni “sei o sette chilometri”. Ma nonostante questo si è andati avanti. “Gli interessi sull’Alta velocità”, dice il giudice Imposimato, “sono troppo forti. Quando nel ‘96 ho preparato una relazione esplosiva sulle infiltrazioni della camorra nella Roma-Napoli, la commissione Antimafia non ha trovato il tempo per votarla. E lo stesso è successo nella legislatura seguente”. Un dato triste, allarmante, ma spesso superato da problemi più banali. Singolare, ad esempio, è quanto accade sulla Milano-Torino, centrale nel processo di modernizzazione. Di fatto, dopo cinque anni di lavori l’unica tratta attiva è la Torino-Novara, e i treni che ci viaggiano sono appena 16. “Un’operazione assurda”, la definisce Angelo Tartaglia, docente di Fisica al Politecnico di Torino ed esperto di Tav. “Che senso ha far correre a 300 all’ora un treno tra città che distano appena 125 chilometri? Molto più utile sarebbe stato rinforzare il servizio pendolari. E comunque, prima di realizzare la tratta nelle campagne, dovevano creare i collegamenti con le città. Invece il tempo è passato, le stazioni sono circondate da case, e tutto si fa più difficile”.
Il paradosso, in questa situazione, è che nessuno paga per gli sbagli commessi. Non esiste cioè un controllore pubblico in grado di arginare le iniziative più infelici. E paradosso nel paradosso, tutto è partito dalle Ferrovie italiane, che nel ‘91 affidano a Tav Spa la progettazione, la costruzione e lo sfruttamento economico delle tratte. Tav a sua volta affida i lavori in subappalto ai consorzi privati, tenendosi però lo sfruttamento. Così accade l’inevitabile: i privati non hanno interesse a terminare le opere, che non potranno sfruttare, e ne hanno invece a tirare in lungo, accumulando cifre strabilianti. “Un problema”, sostiene Ivan Cicconi, “quanto mai attuale. Perché è vero che Tav ha affidato alla società Italfer ‘l’alta sorveglianza’ sui lavori, ma è altrettanto vero che dal punto di vista tecnico-giuridico è aria fritta. A comandare, da che mondo è mondo, sono i direttori dei lavori, e questi li nominano i privati”.
Insomma, commenta Stefano Lenzi del Wwf, “se a parole Tav Spa indica come priorità la trasparenza, nei fatti assistiamo ad altro. Vogliamo raccontare cosa sta accadendo attorno ai primi 54 chilometri della tratta Milano-Genova? Vogliamo dire che uno studio ufficiale di Rfi (Rete ferroviaria italiana) indica che l’opera non è redditiva, e nonostante questo si pensa di spenderci 5,1 miliardi di euro?”.
“Oppure vogliamo parlare della tratta Verona-Padova”, dice Erasmo Venosi, coordinatore del comitato scientifico della conferenza dei comuni veneti sull’Alta velocità, “dove un’analisi della redditività ha preventivato un saldo negativo di 504 milioni di euro?”.
Nell’incertezza, è il caso di ascoltare l’ingegnere trasportista Andrea Debernardi, il quale non parla di tratte ma di come le Ferrovie hanno impostato l’Alta velocità. “Negli anni Settanta”, dice, “l’industria ferroviaria nazionale ha sviluppato la tecnologia del Pendolino, treno in grado di raggiungere alte velocità (250 chilometri all’ora) anche su linee di tipo tradizionale. L’ideale per risparmiare, ma non secondo Fs”. Negli anni Novanta, racconta Debernardi, “viene deciso di puntare su un’altra filosofia: costruire linee ‘dedicate’ e farci correre treni da 300 all’ora. Questi mezzi (gli Etr 500) vengono costruiti dal consorzio Trevi, che incassa l’appalto senza gara e consegna allo Stato i primi esemplari”. A quel punto, dice Debernardi, arriva la svolta clamorosa: “Per le linee speciali si sceglie un’alimentazione diversa rispetto alle altre (25 mila volt a corrente alternata invece dei 3 mila a corrente continua). E siccome gli Etr 500 di prima generazione non reggono il nuovo standard, vengono sostituiti da una seconda infornata, pagata ovviamente con i soldi pubblici”.
In pratica, conclude Debernardi, “si sono massimizzati i costi costruendo linee speciali, sviluppando due treni e perdendo una valanga di tempo”. Più o meno quanto denunciano gli ambientalisti da tempo, passando per nemici della modernità. E più o meno quanto la politica ha lasciato correre, di destra o sinistra che sia.
Oggi il presidente del Consiglio Romano Prodi si dichiara “ossessionato dal problema della differenza di costi tra Italia, Francia e Spagna”. Ma anche lui, in passato, ha avuto un ruolo. “Lorenzo Necci”, scrive Cicconi nella ‘Storia del futuro di Tangentopoli’, “pensò bene di nominare due autorevoli esperti per svolgere il compito di garanti dell’Alta velocità. La delibera con la quale si affidava questo prestigioso e retribuito incarico non chiariva bene compiti ed impegni che i garanti avrebbero dovuto assumere. Ma i nomi erano di tutto rispetto: Susanna Agnelli e Romano Prodi”. Un incarico, va precisato, che l’attuale premier ha ricoperto per pochi mesi.
“Polemiche a parte”, dice la presidente della commissione Lavori pubblici del Senato Donati, “l’importante è muoversi con determinazione. Lo scorso ottobre, un gruppo di parlamentari ha presentato una proposta di legge nella quale si ipotizza una commissione d’inchiesta. E io stessa svilupperò con la mia commissione l’idea di un’indagine conoscitiva su Ferrovie e Alta velocità”. Dopodiché, dice Donati, “c’è molto altro da fare: inserire la questione Alta velocità in una politica degli investimenti, non mollare sul concetto di gara pubblica e pretendere la qualità dei progetti, essenziali per la riuscita delle opere”. Concetti che suonano bene, ma che si scontrano con precedenti incerti. Nel 2002, ad esempio, i finanziamenti per l’Alta velocità sono stati trasferiti a Infrastrutture Spa, assieme ai debiti di Tav Spa. Ma l’operazione creativa non è piaciuta alla Commissione europea, la quale ha costretto l’Italia a riconsiderarli come uscite pubbliche. Quanto all’impegno dell’Unione, alla vigilia delle elezioni promise la revisione totale della Legge obiettivo, perdendo poi mesi preziosi. Da parte sua, il ministro Antonio Di Pietro ha presentato in novembre un documento titolato ‘Priorità infrastrutturali’, pubblicamente bollato dalla senatrice Donati come “il semplice insieme delle richieste dei governatori regionali, rielaborato dal suo ministero”.
Meglio non va con la Finanziaria 2007, dove un maxi emendamento stabilisce che dal 2007 al 2009 si spenderanno altri 3 mila 300 milioni per l’Alta velocità, che diventeranno 8 mila 100 fino al 2021 per la dorsale Torino-Milano-Napoli.
“Decisioni prese senza un’analisi delle ragioni per cui i costi sono lievitati”, nota Stefano Lenzi del WWF. “E tantomeno, senza una seria verifica dell’architettura contrattuale-finanziaria”.