XIV legislatura
Seduta n. 433
Norme di principio in materia di assetto del sistema radiotelevisivo e della RAI-Radiotelevisione italiana Spa, nonché delega al Governo per l’emanazione del testo unico della radiotelevisione (2175)
Discussione generale
Presentazione questione pregiudiziale
DONATI (Verdi-U). Signor Presidente, vorrei illustrare in quattro punti le motivazioni alla base della questione pregiudiziale Q4. Essa parte da una considerazione fondamentale: il presente disegno di legge è palesemente incostituzionale, perché non solo non risolve, bensì aggrava e consolida il duopolio esistente, attraverso la previsione di una fase transitoria e derogatoria antecedente l’avvento completo della tecnica digitale rispetto a quella analogica, sancendo chiaramente in questo modo un aggiramento dei limiti previsti dalla vigente legislazione antitrust.
L’articolo 15 e l’articolo 25 sono quindi in palese contrasto con il principio del pluralismo informativo sancito dall’articolo 21 della Costituzione, nonché con la tutela della concorrenza, garantita dall’articolo 41 della Costituzione. E a nulla valgono le rassicurazioni e le interpretazioni che Governo e relatore, a più riprese, in Commissione ma anche in Aula hanno dato e daranno in ordine alla circostanza che la sentenza della Corte n. 466 del 2002 sia interpretabile nel senso che in caso di ampliamento di capacità trasmissiva in ordine al digitale si può salvare sostanzialmente anche Rete 4.
Credo non sia ammesso e consentito a nessuno interpretare le sentenze della Corte, anche perché in questo caso si tratta di una sentenza davvero molto chiara. Essa ribadisce: “Un termine finale assolutamente certo, definitivo e dunque non eludibile, fissato al 31 dicembre 2000, per il rispetto del limite antitrust “. Le regole si possono cambiare, ma le sentenze della Corte non si possono interpretare.
Il 1° gennaio 2004 noi non avremo un avvento operativo del digitale; siamo quindi in pieno regime transitorio, palesemente in contrasto con tutti i princìpi e i criteri di tutela del pluralismo e della concorrenza.
Secondo elemento: il disegno di legge in esame non introduce nel nuovo sistema prodotto dall’avvento del digitale terrestre meccanismi di assegnazione delle frequenze basati su criteri di mercato equi e trasparenti, che incentivino chiaramente l’entrata di nuovi soggetti concorrenti e che prevedano forme di regolazione asimmetrica del mercato. Questo in contrasto non solo con gli articoli 21 e 41 già citati, ma anche con l’articolo 97 della Costituzione, quindi con il principio di imparzialità.
Sostanzialmente, si trasferisce l’attuale monopolio dall’analogico al digitale, impedendo a nuovi soggetti (soprattutto a nuovi soggetti veri) di entrare in questo mercato in pratica bloccato e non incentivato in termini di concorrenza.
Il terzo elemento, altrettanto incostituzionale, che elude un altro principio fondamentale antitrust, è contenuto all’articolo 7, in cui si parla di televisioni in ambito locale, laddove si consente un numero di concessioni cumulabili in capo al medesimo soggetto, individuando in tre concessioni il limite di concentrazione. Ciò equivale ad un limite antitrust già definito per legge pari al 50 per cento delle reti di livello locale. Anche questo contrasta con i principi di tutela del pluralismo e della concorrenza, come segnalato, peraltro, sia dall’Autorità antitrust che dall’Autorità garante per le telecomunicazioni.
Infine, un ultimo argomento tra i tanti riassunti nel testo scritto della pregiudiziale: l’articolo 16 del provvedimento, che assegna in sostanza una delega in bianco al Governo a predisporre un testo unico sul riassetto radiotelevisivo, senza fornire indicazioni puntuali (cosa che in realtà dovremmo fare esattamente dalle prossime ore in quest’Aula), è palesemente in contrasto con gli articoli 72, 76 e 117 della Costituzione.
Quest’ultimo articolo ha riformato il nostro ordinamento costituzionale in ordine al federalismo e la delega rappresenta una violazione dei precetti costituzionali in esso contenuti; la loro interpretazione sistematica porterebbe ad escludere la possibilità di prevedere una delega così ampia, così generica e così poco puntuale quale quella recata dall’articolo 16 del disegno di legge, che rappresenta un vulnus sia delle prerogative parlamentari, sia di quelle regionali.
Per queste ragioni chiedo, come gli altri colleghi firmatari della pregiudiziale, di non procedere all’esame del testo unificato n. 2175.
DONATI (Verdi-U). Signor Presidente, il tema avrebbe certamente meritato tempi ben più adeguati, ma cercheremo, avendo una lunga consuetudine di Commissione, di concentrarci sulle questioni più significative e anche più gravi di questo provvedimento, che ha un titolo davvero imponente, facendo riferimento al riassetto del sistema radiotelevisivo.
La prima questione che intendo nuovamente sollevare ritengo sarà al centro di numerose interpretazioni al momento dell’esame degli emendamenti. Si tratta dell’opportunità di consentire, attraverso il complesso passaggio dall’analogico al digitale e attraverso l’ampliamento di capacità trasmissiva del nuovo sistema tecnologico, una sorta di salvataggio delle reti esistenti, incluse quelle eccedenti; in altri termini, una sorta di trasmissione da questo sistema al modello futuro che ha sicuramente grandissime potenzialità anche in termini di interattività.
Ribadisco quanto già affermato in sede di illustrazione della questione pregiudiziale. Abbiamo appreso, a seguito di lunghe sedute in Commissione, che il sistema digitale ha forti potenzialità, ma implica almeno tre elementi che, allo stato attuale, non sono predisposti: impianti tecnologici, la cui predisposizione è appena incominciata; un’adeguata strumentazione in mano alle famiglie, con sistemi tecnologici di accesso che devono ancora essere implementati e sostenuti; una capacità di produzione di contenuti ampliata in ordine al fatto che si ampliano i canali di trasmissione.
Si tratta di tre condizioni tuttora arretrate per non dire in qualche caso disattese, da cui si evince che il passaggio dall’analogico al digitale sarà un lungo e complesso.
Tutti ci auguriamo che esso si riveli efficiente ed utile, ma al momento è impensabile ipotizzare che dal 1° gennaio 2004 si realizzi quell’ampliamento di capacità trasmissiva che, sulla base dell’interpretazione della sentenza della Corte e del messaggio che il presidente della Repubblica Ciampi ha rivolto alle Camere, consenta un’ulteriore proroga del regime transitorio in ordine alle reti eccedentarie. Ricordo che la Corte si è richiamata a sentenze precedenti, a partire dal 1994 ed ha chiarito che questo sarebbe stato il termine ultimo, ineludibile, in cui tutti i regimi transitori dovevano cessare.
Credo che abbiamo tutti il dovere di rispettare questa sentenza. Ciò ovviamente non significa che quando il digitale sarà pienamente operativo non vi sarà il problema di riempirlo di contenuti, magari consentendo anche agli attuali operatori di esprimere pienamente e utilmente la loro capacità espositiva.
L’attuale mantenimento di una rete eccedentaria non è un problema personale contro Emilio Fede, anzi. Credo che il problema vero sia di quell’operatore privato che ha avuto una regolare concessione e che non ha mai avuto una regolare assegnazione di frequenze, al quale quindi viene impedito legittimamente di operare. Il problema non è di chi c’è, ma di chi, pur avendo diritto di entrare, diversamente da altri non ha avuto la possibilità di accedere ad un sistema che si diceva di volere ampliare e liberalizzare.
Questo tema introduce subito il secondo, relativo all’assegnazione delle frequenze. Le direttive, le norme, le sentenze, i pareri dell’Autorità, parlano sempre di un’assegnazione equa e trasparente delle frequenze, essendo lo spettro limitato. Ebbene, dalla lunga discussione svolta in Commissione emerge un dato molto chiaro: l’assegnazione delle frequenze si fa con logiche di libero mercato in cui chi le frequenze le ha le può vendere e chi non ce le ha se le può solo comprare da chi sostanzialmente ce le ha.
Questo rappresenta un limite fortissimo ad un meccanismo di aperta concorrenza e lo stesso passaggio dall’analogico al digitale, così come configurato dal provvedimento, prevede una sorta di trasferimento di diritti senza riassegnazione vera di frequenze.
Per questa ragione il Gruppo dei Verdi ha proposto come possibile soluzione il fatto che la separazione sempre più netta tra rete e fornitore di contenuti e di servizi passi anche attraverso la predisposizione di una rete trasmissiva pubblica che si riappropri delle frequenze e le riassegni con criteri equi e trasparenti, ovviamente tutelando gli interessi legittimi.
Il terzo elemento che voglio anch’io sottolineare, la vaghezza del SIC, non è un problema irrilevante, se è su quello che si calcolano i limiti di concentrazione. Questi ultimi fissati al 20 per cento, sarebbero anche accettabili, però calcolati su un meccanismo che include libri, dischi e imprese di pubblicità (quindi un soggetto molto ampio sul piano della valenza economica), come ci hanno suggerito sia l’Autorità antitrust che l’Autorità garante per le comunicazioni, sono di una tale vaghezza che sarà letteralmente impossibile quantificare la base di riferimento. Con questo provvedimento non aiutiamo il lavoro di verifica dei limiti antitrust.
Siamo molto favorevoli a tutti i processi di convergenza multimediale, che sono importanti, significativi e danno sicuramente delle opportunità, ma in questo momento si va verso una concentrazione.
Voglio ancora segnalare la gravità dell’incremento dell’indice di affollamento, così come il meccanismo di telepromozione che è stato identificato con un limite giornaliero e non orario e, ancora, la possibilità di incrocio tra il sistema televisivo, le radio e i giornali, dove le radio nel momento in cui il provvedimento verrà approvato definitivamente si potranno comprare dalla mattina successiva e per i giornali, che saranno solo avvisati, lo si potrà fare fra due anni.
L’asimmetria che esiste tra sistema televisivo, carta stampata e radio non ci sembra un modo adeguato di rispettare pluralismo, democrazia e libertà di espressione tutelati dalla Costituzione nel nostro Paese.
Infine, l’ultimo argomento che mi sarebbe piaciuto sviluppare riguarda la RAI. Questo provvedimento di fatto consente una public company che ha un doppio effetto: in primo luogo, non consente l’eventuale ingresso, con un margine di rischio, di quegli operatori privati che abbiano voglia di spendersi in termini di competenze; in secondo luogo, consente al Tesoro, di fatto, di rimanere l’azionista che può nominare direttamente i soggetti all’interno del consiglio di amministrazione.
Ci sembra che fra le varie soluzioni, seppure è vero che tutto resta in campo pubblico e il principio è salvo, questa non consenta quel progetto strategico per la RAI che invece sarebbe indispensabile e al quale vengono peraltro negate alcune risorse che la Presidente e il direttore ci hanno richiesto in Commissione per consentire alla RAI di sperimentare per prima e fare da traino per quanto riguarda il sistema digitale. In realtà essa sarà il soggetto che per ultimo riuscirà ad entrare in questo nuovissimo mercato.
Queste sono le ragioni per le quali si prospetta una RAI ancora più debole, senza un progetto e reti private sempre più forti. Sommando questo al conflitto di interessi ampiamente irrisolto, avremo meno pluralismo nel sistema radiotelevisivo e quindi in tutto il sistema di informazione e di democrazia del nostro Paese.
Seduta n. 447
Martedi 22 Luglio 2003
Dichiarazione di voto.
DONATI (Verdi-U). Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, esattamente un anno fa, il 23 luglio 2002, il Presidente della Repubblica inviava al Parlamento un messaggio in cui ci esortava ad approvare norme “a garanzia del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione” che costituiscono uno strumento essenziale della nostra democrazia, fondata sulla libertà di opinione e di espressione dei cittadini.
Una sollecitazione nata dalla constatazione che RAI e Mediaset detengono ben il 97 per cento della raccolta pubblicitaria, hanno il 90 per cento di audience e negli ultimi dieci anni questa concentrazione si è rafforzata, mentre nessun nuovo soggetto è riuscito ad allargarsi nel mercato radiotelevisivo.
Ma il provvedimento sul riassetto del sistema radiotelevisivo che oggi il Senato si appresta a votare è la risposta arrogante che il Governo e la maggioranza hanno predisposto al messaggio del Presidente e che va esattamente nella direzione opposta: è una legge contro il pluralismo nell’informazione e la democrazia nel nostro Paese.
In concreto è una legge che assicura a chi è già presente nel mercato di allargarsi in modo consistente nell’era digitale; permette un’ulteriore concentrazione perché assicura al sistema televisivo la possibilità di acquistare la proprietà di giornali, quotidiani ed emittenti radiofoniche; impedisce inoltre a nuovi soggetti capaci di fare televisione anche solo di nascere, eliminando alla radice potenziali concorrenti.
Infine le norme per la privatizzazione della RAI, unite all’assenza di un progetto strategico e di risorse adeguate, produrranno un ulteriore indebolimento del servizio pubblico radiotelevisivo.
È un testo a cui i Verdi e l’Ulivo si sono opposti duramente sia in Commissione sia in quest’Aula del Senato, che non ha impedito a Governo e maggioranza di peggiorare i contenuti rispetto alla stesura pervenuta dalla Camera. Una valutazione estremamente negativa quella dei Verdi, che si basa su sette punti.
In primo luogo, questo testo elimina le concentrazioni di settore nei vari segmenti dell’informazione e adegua il calcolo del limite di concentrazione per un unico soggetto proprietario sul complessivo e vago Sistema integrato delle comunicazioni, una sorta di paniere allargato del sistema informativo che consentirà il superamento dei tetti.
In secondo luogo, il disegno di legge Gasparri autorizza l’ennesima proroga per consentire a Rete 4 di continuare a trasmettere in chiaro, nonostante una precisa sentenza della Corte, la n. 466 del 2002, abbia stabilito in modo indiscutibile che dal 1° gennaio 2004 devono essere liberate le frequenze. Il problema nasce dal fatto che un altro soggetto privato, che ha ottenuto una regolare concessione, non è mai riuscito ad ottenere le frequenze per trasmettere perché occupate in modo “transitorio” da Rete 4; non è quindi Rete 4 la vittima, bensì gli altri soggetti privati che non sono mai riusciti ad andare in onda.
In terzo luogo, questo disegno di legge evita un’attribuzione delle frequenze basata su criteri equi, trasparenti e non discriminatori, così come tutte le norme, italiane ed europee, richiedono. Va ricordato che le frequenze sono un bene scarso e limitato, quindi prezioso, e che si sarebbe dovuto cogliere il passaggio al digitale per riordinare e assegnare le frequenze secondo regole di interesse pubblico, a tutela della concorrenza e del mercato; invece sarà l’acquisto diretto, a trattativa privata, l’unico metodo per ottenerle.
In quarto luogo, il provvedimento consente a chi già possiede più di due reti nazionali di acquistare subito le radio e dal 2008 anche giornali e quotidiani: è questo un grave colpo al sistema pluralistico che ha sempre caratterizzato il sistema della carta stampata nel nostro Paese. Aumenterà la concentrazione nelle mani di pochi proprietari dell’intero sistema di informazione, riducendo quindi la libertà di espressione e di opinione che la nostra Costituzione tutela in modo così efficace con l’articolo 21.
In quinto luogo, altro elemento grave del testo riguarda l’affollamento pubblicitario, per cui si permette di mandare in onda più telepromozioni negli orari di massimo ascolto televisivo, aumentando in questo modo concreto la pubblicità, mentre i cittadini cambiano peraltro canale. È una norma fatta solo per assicurare più pubblicità al sistema televisivo, riducendo le opportunità di raccolta per giornali e radio, nonché per il sistema locale.
In sesto luogo, il provvedimento interviene sul riassetto della RAI, con una privatizzazione sbagliata quanto inutile: inutile perché impedisce ad eventuali soggetti privati di entrare negli assetti azionari; sbagliata perché privatizzare la RAI mentre è in decisa picchiata di ascolti è comunque un errore e non si comprende in realtà quali cittadini dovrebbero investire i propri risparmi in azioni che non rendono. Altrettanto grave è che questa norma non ponga alcun limite di detenzione del 51 per cento in mano pubblica, lasciando questa scelta delicata in mano al Governo ed espropriando il Parlamento.
Ma certo non è sfuggito ai cittadini che la privatizzazione consente pienamente di riaprire il balletto delle nomine del consiglio di amministrazione della RAI e di avvicinare nuovamente i partiti alle scelte sui futuri assetti e lottizzazioni nell’azienda pubblica. Per la RAI in questo testo mancano un progetto strategico e risorse adeguate per garantirne il rilancio ed il ruolo essenziale di servizio pubblico.
Infine, per noi Verdi c’è una ragione aggiuntiva: l’estensione del decreto legislativo Gasparri n. 198 del 2002, che consente l’installazione delle antenne senza autorizzazione da parte dei Comuni, in sfregio altresì al principio di precauzione verso la salute dei cittadini, anche agli impianti radiotelevisivi per il sistema digitale.
Il risultato concreto di queste norme sarà una RAI sempre più debole, le reti Mediaset sempre più forti, e nessun nuovo soggetto privato in gradi di nascere con l’aggravante che le tre reti private sono di proprietà personale del Capo del Governo, riproponendo il nodo irrisolto del palese conflitto d’interessi del presidente del Consiglio Berlusconi. Anche in questo caso, del resto – lo abbiamo vissuto in queste settimane in Aula – i suoi interessi privati nel settore radiotelevisivo coincidono pienamente con la normativa proposta dal Governo e votata in silenzio dalla maggioranza in Parlamento.
Per queste ragioni i Verdi voteranno convintamente contro il provvedimento in esame, perché non c’è democrazia senza pluralismo e l’imparzialità nell’informazione deve essere e restare un diritto di ogni cittadino.