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La riforma dei servizi pubblici locali sul filo del rasoio

30 Marzo 2007

di Andrea Boitani

di Andrea Boitani*

Quella dei servizi pubblici locali è stato, per due legislature, uno dei casi più clamorosi di riforma abortita. Al di là delle incertezze dei governi nazionali nella XIII e XIV legislatura, le maggiori resistenze alla riforma sono venute proprio dagli amministratori locali. A luglio scorso, il Governo Prodi ha presentato un disegno di legge delega (AS n. 772), più noto come disegno di legge Lanzillotta, per riprendere il cammino delle liberalizzazioni. La lentezza con cui il ddl si muove nel cammino parlamentare è un indice delle forze potenti che ancora sostengono il capitalismo comunale.

La socialità è una scusa
Tutti gli argomenti “ideali” a favore del capitalismo comunale sono stati smontati così tante volte che non c’è bisogno di ritornarci sopra. Oggi soltanto un lunatico può credere che sia necessaria la proprietà pubblica locale per assicurare che vengano prodotti nella quantità necessaria e a un prezzo accessibile gran parte dei servizi pubblici locali. Tutti sanno che il public procurement, se incardinato in rapporti contrattuali incentivanti con soggetti selezionati per mezzo di gare trasparenti, può dare luogo a risultati per i cittadini preferibili a quelli della produzione monopolistica pubblica. Il problema è che non sono i cittadini i soggetti che stanno realmente a cuore dei difensori del capitalismo comunale. In alcuni casi, i servizi vengono utilizzati per tassare implicitamente il cittadino-consumatore, a beneficio dell’azionista pubblico facendogli pagare prezzi elevati per servizi che in altri paesi europei sono disponibili a prezzi assai più contenuti. In altri casi, il cittadino-consumatore viene invocato soltanto in quanto meritevole di attenzioni “sociali”, ovvero come titolare del diritto di accesso ai servizi (o almeno ad alcuni di essi) a prezzi contenuti. Ma viene generalmente taciuto che la garanzia di tale diritto viene sopportata dalla finanza pubblica e quindi, in ultima analisi, dallo stesso cittadino in quanto contribuente, perché i costi di produzione dei servizi, in Italia, sono, in molti casi, elevati rispetto ai migliori standard internazionali, mentre la qualità risulta insoddisfacente.
Insomma, spesso la “socialità” è solo la copertura delle inefficienze e delle posizioni di rendita dei produttori dei servizi, che ancora godono di ampie posizioni di monopolio, legali o di fatto. “Porre al centro il cittadino-consumatore” significa cambiare prospettiva: significa dire a chiare lettere che l’efficienza non è nemica della “socialità” e anzi che, per un buon tratto, la socialità può essere perseguita attraverso l’efficienza. Significa anche affermare che la concorrenza e la buona regolazione non sono obiettivi ideologici, ma servono al cittadino-consumatore perché strumentali al raggiungimento dell’efficienza e della qualità dei servizi.

Le vere ragioni di tenuta del capitalismo comunale
A dispetto di ciò, negli ultimi anni, mentre la riforma arretrava, il capitalismo comunale si è andato allargando. Le ragioni di un tale sviluppo sono, a mio giudizio, così riassumibili. In primo luogo la elevata redditività delle aziende operanti nei settori della distribuzione dell’energia e del gas e delle autostrade, redditività garantita da un assetto industriale assai poco concorrenziale e da una regolazione generosa. Gli enti locali puntano sul mantenimento dell’attuale assetto della regolazione al fine di assicurarsi stabili e consistenti flussi di cassa negli anni avvenire, preferendoli agli introiti, rilevanti ma una tantum, garantiti dalla privatizzazione. Tale preferenza è spiegabile con la garanzia che il mantenimento del controllo assicura di poter continuare a sussidiare, con i proventi delle “galline dalle uova d’oro”, le perdite dei servizi sociali o gravati da “obblighi di servizio pubblico”, come i trasporti locali o la raccolta dei rifiuti. Inoltre, la possibilità dell’affidamento in house (introdotta con l’art. 35 della legge 448/2001, poi confermata con l’art. 14 del DL 269/03, ulteriormente modificato con l’art. 4 della L 350/03, noto come “lodo Buttiglione), consente di evitare di ricorrere al public procurement tramite gare competitive e trasparenti e di distorcere la concorrenza in mercati pienamente liberalizzati con la presenza di soggetti che, in quanto controllati dalla mano pubblica locale, non possono fallire e non rischiano il take over.

La mancata riforma dei servizi pubblici locali, inoltre, ha ridotto la spinta esogena all’introduzione di maggiore concorrenza, con la conseguenza che in alcuni comparti particolarmente gravati da inefficienze (come i trasporti locali) non si è realizzata un’apprezzabile riduzione dei costi. Dopo gli efficientamenti conseguiti tra il 1998 e il 2001, sotto la minaccia delle gare – che,  secondo la normativa allora in vigore, si sarebbero dovute svolgere in tutta Italia entro il 2003 – molti comportamenti del passato sono tornati in auge non appena il “lodo Buttiglione” ha allontanato la minaccia della concorrenza. Settori come i trasporti locali  sono dunque rimasti “affamati” di risorse pubbliche, con conseguente ulteriore rafforzamento della propensione degli enti locali per i sussidi incrociati consentiti dal mantenimento del controllo sulle aziende redditizie.

Appare poi probabile che le ristrettezze finanziarie in cui si sono venuti a trovare gli enti locali per le progressive “strette” determinate dalle esigenze di finanza pubblica (i vari Patti di stabilità interni, ecc.) abbiano finito per rafforzare la preferenza degli enti locali per il controllo delle imprese profittevoli. La fame di risorse ha spinto gli enti locali a costituire proprie società per entrare in altri settori redditizi, dalla gestione della sosta e dei parcheggi alla erogazione di servizi di supporto al funzionamento degli enti locali stessi, fino a servizi informatici o a servizi di bus turistico. Abbiamo assistito così alla crescita di un “nuovo” settore pubblico locale, finalizzato al finanziamento dell’ente locale stesso. Una conseguenza diretta delle regole contabili collegate ai vari Patti di stabilità è la tentazione, avvertibile a livello locale come a livello nazionale, di aggirare i Patti stessi riuscendo a collocare al di fuori del perimetro della PA aziende che devono indebitarsi, così da poter far apparire tali indebitamenti come di pertinenza delle aziende stesse e non della PA, a cui, tra l’altro, è fatto divieto di finanziare con mutui le spese correnti. Tale divieto – che peraltro risponde a un principio di sana e prudente gestione – ha finito per sviluppare la fantasia delle amministrazioni locali al fine di mascherare come spese di investimento quelle che, a tutti gli effetti, sono spese correnti.

Gli argomenti precedenti sono rafforzati (e non di poco) dalla spontanea propensione degli amministratori e dei politici locali a mantenere e, se possibile, allargare il controllo pubblico sulle aziende locali allo scopo di consolidare il proprio potere, distribuendo posti nei consigli di amministrazione e nel management di tali aziende (molto spesso a ex sindacalisti o a sodali politici), nonché allo scopo di influire direttamente sulle scelte concrete delle aziende stesse e di mantenere un rapporto diretto con una fetta non grande ma “attiva” di elettorato potenziale: i dipendenti delle aziende. Il lettore che trova sgradevoli ragionamenti di questo genere, giudicandoli troppo cinici, dovrebbe andarsi a leggere i nomi dei manager pubblici locali della propria città e cercare su internet un loro breve curriculum.

Ce la può fare il disegno di legge Lanzillotta?
La parte più positiva del ddl Lanzillotta, nella sua versione originaria, consisteva nella limitazione a casi eccezionali, da documentare appropriatamente, del ricorso agli affidamenti in house (art. 2, commi b, c, d). Il comma 393 della Legge Finanziaria 2006 prevedeva che le aziende di trasporto pubblico locale che godono di affidamento in house debbano mettere a gara, entro il 2006, almeno il 20% del servizio da esse gestito, al fine di attenuare la loro condizione di monopolio. Nel ddl 772 non viene chiarito se quanto previsto dalla LF 2006 dovrà rimanere in vigore o se, invece, anche quel “poco, maledetto ma subito” delle gare per il 20% dei servizi già affidati in house verrà cancellato. Inoltre, il testo (art. 2, comma l) fa salvi gli attuali affidamenti in house fino al 2011, tra cui il più rilevante è quello del trasporto pubblico locale a Roma che, guarda caso, scade proprio nel 2011. Dopo la grottesca vicenda dei taxi, questa norma apparentemente cucita addosso alle esigenze dell’amministrazione comunale di Roma (ma non dei cittadini/contribuenti romani) suscita qualche perplessità.
Ma le resistenze degli amministratori locali sono tornate a farsi sentire con forza nella Conferenza Stato-Regioni-Città e, quindi in Parlamento: cercano, in tutti i modi, di allargare la finestra degli affidamenti in house. Il ministro Lanzillotta – condizionata anche dalla rigidità di certa sinistra radicale – è sembrata propensa a concedere qualcosa per ottenere il consenso di sindaci e governatori. Sarebbe molto meglio non cedere sul principio generale e invece di fissare una soglia dimensionale dei Comuni (per esempio, 10000 abitanti) che possono ricorrere all’in house senza troppe giustificazioni.

Così come sarebbe meglio non cedere all’atteggiamento ideologico-sciamanico che prevale a sinistra quando si parla di servizi idrici (“l’acqua è la vita e la vita non si può affidare al mercato” e via strologando). Purtroppo, la gestione di questi servizi viene sibillinamente lasciata in mano pubblica già all’art. 1 del ddl Lanzillotta. Siamo di fronte a un palese cedimento all’ideologia (non sembra che i cittadini britannici siano morti come mosche dopo che la gestione dei servizi idrici è stata privatizzata, molti anni fa). Ma credo che fosse un cedimento già contenuto nel programma elettorale dell’Unione e quindi resistente a qualsiasi aggressione da parte della razionalità o anche solo della ragionevolezza. Così come doveva evidentemente far parte di un accordo politico il silenzio assoluto sulla privatizzazione. Parliamo di liberalizzazioni ma non di privatizzazioni, deve essere stato l’accordo tra i tanti partiti dell’Unione. Come se avesse senso la liberalizzazione con il mantenimento della proprietà pubblica. Come se la principale ragione per cui gli enti locali non liberalizzano non fosse che le aziende monopoliste sono di loro proprietà!

Pagare i costi politici della riforma
Il maggior timore è che il ddl soggiaccia all’illusione delle “riforme senza costi”. In realtà, in senso politico nessuna riforma può essere a costo zero. Nel “documento Rutelli” sulle liberalizzazioni (presentato lo scorso novembre) venivano individuati alcuni “strumenti per accompagnare e sostenere i processi di liberalizzazione”. Tra questi avevano grande rilievo il generale riordino degli ammortizzatori sociali e la loro estensione ai soggetti che operano nei settori che devono essere liberalizzati – dove potrà inizialmente manifestarsi qualche esubero di manodopera – e gli incentivi alla aggregazione e alla crescita dimensionale delle imprese che gestiscono i servizi pubblici locali.

Mentre coniugare riforme e ammortizzatori sociali può essere la chiave (tra l’altro, quella degli ammortizzatori sociali è una riforma che andrebbe fatta anche a prescindere dalla liberalizzazione dei servizi), sugli incentivi bisogna stare molto attenti. Bisogna innanzitutto individuare bene i soggetti che frenano la liberalizzazione dei servizi, soprattutto a livello locale, e i motivi per cui lo fanno, per poi calibrare gli interventi (premi, ma anche punizioni) in modo da incentivare effettivamente comportamenti che vadano nella direzione desiderata.

Gli equilibri, nel caso dei servizi locali, sono molto delicati. Da un lato, infatti, vi sono le competenze, in alcuni casi esclusive, che la Costituzione attribuisce agli enti locali, dall’altro c’è la necessità di mantenere stretti i vincoli del Patto di stabilità interno, al fine di salvaguardare il sentiero di risanamento della finanza pubblica. Ferma la necessità di destinare la maggior parte delle risorse provenienti dalle maggiori entrate fiscali alla riduzione del debito pubblico, sarebbe opportuno destinarne una piccola quota predeterminata a un preciso programma di incentivi per le liberalizzazioni e privatizzazioni dei servizi locali. Rendendo così chiaro l’uso a favore dei cittadini-consumatori di una pressione fiscale che è certamente molto elevata.

* docente Economia politica – Università Cattolica di Milano

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